Intervista ad Alberto Alpozzi: le bugie sul colonialismo italiano e la mostra menzognera

Ancora oggi gli aspetti deleteri del colonialismo italiano vengono enfatizzati dai media e dal mondo accademico fino a prevalere su qualunque considerazione di carattere storico. O peggio, fino a distorcere o mistificare quella che è stata la realtà dei fatti. È il grande paradosso della nostra epoca: crediamo di vivere nella società dell’informazione libera e accessibile, mentre la storia viene soppressa, riscritta o ignorata. Ha provato a fare breccia nella cappa di oscurantismo culturale il saggista, fotoreporter e giornalista Alberto Alpozzi, di Torino, che si dedica a ripristinare la verità storica dell’esperienza coloniale italiana. Ha già scritto tre libri intitolati “Bugie Coloniali”, che svelano e correggono le falsità degli ultimi decenni sulle colonie del Regno d’Italia nel continente africano.

Un’occasione per sbugiardare i dati falsi e tendenziosi l’ha avuta lo scorso ottobre, all’inagurazione della mostra Africa. Le collezioni dimenticate, conclusasi qualche settimana fa. Le segnalazioni di Alpozzi hanno suscitato clamore, perché hanno di fatto costretto gli organizzatori a modificare almeno uno dei pannelli. Si trattava di quello relativo a Cesare Maria De Vecchi, che governò per cinque anni la Somalia italiana. I nipoti del quadrumviro, infatti, non sono rimasti indifferenti agli “errori” e ne hanno chiesto ufficialmente la correzioe. Lo scalpore mediatico che ne è seguito ha rinnovato l’interesse verso la storia nazionale, così bistrattata e infangata dagli italiani stessi.

– Come si è accorto degli errori commessi dagli organizzatori della mostra?

– Mi sono recato a visitare la mostra dopo poco la sua inaugurazione e ho notato subito degli errori piuttosto gravi. Era molto sbilanciata la stessa introduzione al tema, che parlava soltanto di violenze, spoliazioni e soprusi continui degli italiani a danno dei locali. L’esposizione si prefiggeva di raccontare la storia dell’Italia coloniale basandosi sui documenti e sui materiali conservati nei musei piemontesi. Tuttavia, la sfumatura ideologica impressa dagli organizzatori appariva lampante fin dalle prime sale: invece che delle colonie italiane, infatti, parlavano al Congo belga!

– E come hanno trovato la maniera di parlare della crudeltà del Congo belga collegandolo alle colonialismo italiano?

– L’escamotage usato dagli organizzatori è stato di riferirsi agli ingegneri italiani che lavorarono per Bruxelles occupandosi delle infrastrutture e delle ferrovie del Congo belga. Dopo aver citato i nostri connazionali che operavano da tecnici sul posto, la mostra esibiva le immagini dei congolesi incatenati o con le mani e i piedi mozzati, volendo far scattare nei visitatori un’associazione mentale fra queste atrocità e l’Italia. Peccato che – ripeto – si trattasse di colonie del Belgio. Per caratterizzare negativamente tutta l’esperienza coloniale italiana, gli organizzatori hanno giocato coi fatti in modo sleale: nel pannello dedicato alla decolonizzazione hanno inserito l’immagine del primo ministro congolese Patrice Lumumba, protagonista dell’indipendenza da Bruxelles ottenuta nel 1960.

– Come proseguiva la mostra?

– Dopo questo preambolo dedicato alle efferatezze del Congo belga, nel quale i nostri connazionali erano presenti solamente in qualità di ingegneri, la mostra passava finalmente a parlare delle colonie italiane. Ma anche qui ho appurato una totale mistificazione. Ho analizzato tutti i pannelli e ne ho evidenziato le omissioni, le storture e la malafede.

Faccio un esempio riferendomi ancora alla parte sulla decolonizzazione: hanno parlato di Lumumba, ma hanno totalmente glissato sull’AFIS, l’amministrazione fiduciaria della Somalia durata al 1950 al 1960, concessa all’Italia su richiesta dei somali stessi. Si tratta dell’unico caso di un Paese sconfitto in guerra che riceve in amministrazione dalle Nazioni Unite una sua ex colonia. E non dimentichiamo l’Italia aveva ottenuto la Somalia per affitto, precedentemente al fascismo.

– Dunque esistevano colonie italiane anche prima del fascismo? Si tende a credere che il colonialismo nostrano coincida col Ventennio.

– Così come la colonia di Somalia, anche quella di Libia risale a prima di Mussolini. La Libia fu ottenuta con la guerra italo-turca del 1911-12, e pure Rodi e le altre isole del Dodecaneso. L’occupazione dell’Eritrea iniziò nel 1869. L’unica colonia ottenuta sotto il fascismo fu l’Etiopia nel 1935-36. L’Italia venne dunque privata di colonie che in maggioranza non riguardavano le iniziative del regime fascista né prima né durante la Seconda Guerra mondiale.

– La mostra ha poi fatto le correzioni necessarie?

– Gli organizzatori hanno corretto soltanto un pannello, quello dedicato alla Somalia. In esso si diceva che le concessioni agricole di Genale, una zona di bonifica, furono fatte da De Vecchi e che furono gestite tramite la schiavitù. Si trattava invece di misure governative che non consistevano in lavoro coatto o in altre forme di servitù. Ho segnalato la “svista” alla famiglia di De Vecchi, che a sua volta ha scritto alla direzione del Museo. Dopo qualche giorno, una curatrice della mostra ha ammesso l’errore e si è scusata, e così ha fatto la direttrice del museo. Quest’ultima ha comunicato che la modifica sarebbe avvenuta con una certa dicitura, ma quella poi effettivamente inserita era diversa.

La versione finale è uscita “edulcorata” rispetto a quanto inizialmente promesso. Gli organizzatori però non hanno corretto le altre inesattezze, storture e lacune. Probabilmente, se avessero messo mano a tutti gli errori, sarebbero stati costretti a rifare daccapo l’intera mostra! Ma non hanno potuto ignorare l’errore su De Vecchi perché avrebbero rischiato una querela, essendo i pronipoti ancora vivi e giustamente interessati a difendere la memoria del bisnonno dalle falsità.

– I media si sono interessati alla vicenda?

– Ho scritto un articolo per spiegare gli errori della mostra e le correzioni ventilate ed è stato pubblicato da Torino Cronaca. Articolo poi ripreso pochi giorni dopo da Il Giornale. Tuttavia, dopo l’intervento della famiglia De Vecchi e l’apposizione della dicitura diversa da quella promessa, il caso si stava gonfiando troppo. Quindi se ne è interessata anche La Stampa, che ha definito l’accaduto come un semplice “scivolone” dei Musei Reali e ha citato le scuse della direttrice.

Il giorno successivo al pezzo de La Stampa, che conteneva l’ammissione dell’errore da parte della direttrice del museo, è uscita una replica della professoressa Cecilia Pennacini, docente di antropologia culturale all’Università di Torino. È una co-curatrice della mostra. Evidentemente conosce poco la materia della mostra, perché alle mie correzioni non ha controbattuto in argomento. Invece di spiegare per quale motivo, a suo dire, io avessi torto ad affermare che in Somalia negli anni 1923-28 De Vecchi non aveva governato con la violenza o lo schiavismo, ha soltanto detto che nel 1926 gli italiani avevano usato il gas in Etiopia. Altri luoghi e altra epoca.

– Dunque la Pennacini ha replicato parlando di un altro periodo e di un’altra zona geografica.

– Esattamente. Ha svicolato dal merito degli errori, citando episodi avvenuti in un’altra regione e in anni diversi. Vede, c’è una sorta di fissazione ideologica verso gli episodi di utilizzo dei gas da parte delle truppe italiane. Gli esponenti dell’intellighenzia ne parlano come se si fosse trattato di una pratica costante, senza contestualizzare l’accaduto. Fanno passare un periodo limitato di una guerra durata 6 mesi – in cui i gas vennero utilizzati per 4 di questi, in alcune battaglie – come se fosse l’assoluto della storia coloniale italiana, che invece si è sviluppata per quasi 80 anni. Si deve certamente aborrire quello che è stato l’uso del gas come strumento di guerra, ma allora bisogna prima condannare la guerra in sé. La guerra è sbagliata a priori e deve essere condannata in quanto tale. L’Italia commise indubbiamente un errore nel ricorrere ad armi vietate dalle convenzioni internazionali.

E per sgombrare ulteriormente il campo dai soliti “equivoci”, per fare come la Pennacini, cambiando luogo ricordiamo che in Libia l’autorizzazione all’impiego dei gas (e l’istituzione dei campi di concentramento) avvenne sì nel 1922, anno di inizio dell’era fascista, ma prima della marcia su Roma del 28 ottobre… Il pugno di ferro contro i ribelli africani fu infatti istituito sotto il governo Facta con Regio Decreto del 17 luglio 1922, firmato dal ministro delle Colonie Giovanni Amendola. Sì, proprio quell’Amendola antifascista a cui oggi sono intitolate vie e piazze.

– Convenzioni internazionali che però non tutti gli Stati avevano siglato.

– Proprio così. L’Etiopia non aveva firmato la convenzione per la messa al bando delle armi chimiche. Così come non riconosceva la Convenzione di Ginevra: i prigionieri italiani venivano evirati e poi decapitati, ma di queste crudeltà gli accademici parlano poco. E per non dire delle pallottole dum-dum, passate di contrabbando agli etiopi da parte di inglesi e francesi. Aggiungo una riflessione a proposito dell’idea che con il colonialismo l’Italia “invadesse” territori appartenenti ad altri Stati. Per il diritto internazionale, quello elaborato e seguito dall’Europa, molte di quelle terre venivano all’epoca considerate res nullius.

La maggior parte dei possedimenti coloniali era stabilita su precedenti sultanati, le cui frontiere erano elastiche, ovvero non esistevano come noi oggi le concepiamo. I confini si basavano sulla forza e sulla capacità di un clan rispetto agli altri di prendersi i pozzi e i terreni circostanti. Fu l’Italia a stabilire i nomi e a tracciare i confini di Libia, Somalia ed Eritrea. E quest’ultima non fu invasa o conquistata, ma comprata! La società genovese di navigazione Rubattino acquistò la baia di Assab per conto del governo italiano e intorno ad essa si sviluppò la nostra colonizzazione. La Somalia venne affittata da due sultani, ai quali Roma pagava annualmente una sorta di cedola per il protettorato. I documenti lo dimostrano e li ho inclusi nei miei libri.

– Sono documenti presenti negli archivi e disponibili a tutti?

– I documenti sono sempre stati disponibili negli archivi, ma nessuno si era mai preso la briga di inserirli in un testo apposito. Sono documenti su cui a livello di divulgazione si è sempre preferito sorvolare, ma in base ai quali i libri di scuola andrebbero quanto meno rivisti. Parlando di invasione coloniale della Libia, ad esempio, bisognerebbe precisare che si è trattato della Guerra italo-turca del 1911-12. Non esisteva uno Stato di nome “Libia”, perché al suo posto c’erano varie zone come la Cirenaica, il Fezzan e la Tripolitania. L’unione di tali regioni venne perfezionata da Italo Balbo. L’Italia non mosse guerra ai “libici”, ma all’Impero Ottomano che dominava il Nord Africa.

In Somalia, l’Italia si sostituì al dominio di Zanzibar, dello Yemen, dell’Arabia Saudita e di coloro che nel tempo si erano succeduti nel controllo dei pozzi e dei pascoli di quelle regioni. La nobiltà locale erano formata dai clan di pastori, che possedevano capre e cammelli. La loro era dunque una vita agiata e tranquilla rispetto a quella degli schiavi che coltivavano faticosamente la terra. In Italia avevamo abolito la servitù della gleba molto tempo prima. Purtroppo a tutt’oggi è diffusa la diceria che fummo noi italiani a schiavizzare i locali.

– Insomma, la verità storica viene taciuta o peggio ancora distorta.

– La nostra è un’epoca di mistificazione. Che siano i fatti storici o l’attualità, al pubblico viene fornita una versione funzionale a determinati interessi. E non sono interessi che coincidono con quelli nazionali dell’Italia. A farci le lezioncine di morale sono coloro che le conquiste coloniali le fecero secoli prima dell’Italia, che arrivò per ultima in Africa. La morale che la facevano già nel 1935 all’epoca della guerra di Etiopia. Si tratta dei francesi e dei britannici, questi ultimi fondatori per interposta persona dell’ANSA, la più importante agenzia di informazione in Italia. Ricordiamo che nel 1861 furono proprio gli inglesi a caldeggiare e appoggiare l’unificazione italiana, verso la quale nel XIX secolo avevano forti interessi economici e politici.

Dal 2020 riceviamo le veline anche da Parigi, perché grazie a un accordo pluriennale una parte del flusso informativo di AFP (Agence France Press) va a comporre i notiziari ANSA. Alla cappa informativa e accademica che grava sull’Italia contribuisce altrettanto pesantemente una certa parte politica. Negli anni, essa ha instaurato un meccanismo tale per cui non appena esce una notizia che va a inficiare la loro narrazione, si attiva in automatico una schiera di battitori singoli con lo scopo di coprire, deviare e intorbidire.

– Immagino che qualcosa del genere sia avvenuto in occasione delle Sue segnalazioni degli errori della mostra.

– Certo. Dopo la pubblicazione del mio articolo e la seguente correzione che gli organizzatori hanno fatto al pannello di De Vecchi, è uscita immediatamente su giornali e siti web una serie di recensioni positive della mostra. Contemporaneamente, sulle mie pagine social sono arrivati insulti e attacchi personali. Nessuno mi ha mai contestato sul punto, per esempio trovando errori che posso aver commesso o dimostrando la falsità delle fonti che ho riportato. No, erano tutte critiche ad hominem.

In questi anni nessuno è riuscito a smentire il contenuto dei miei libri, né i professori né i giornalisti né gli utenti social che mi insultano o mi attaccano. La già citata Pennacini, pur di sminuire il mio lavoro (non sapendo d’altronde come fare a smontare o a contraddire i fatti che espongo nei libri) l’ha buttata sul piano dei titoli accademici. Quasi come se si trattasse di lesa maestà il fatto che io “me la sia presa” col più celebre storico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca.

E l’unica volta in cui ha provato a smentirmi ci ha fatto una magra figura. Agli organizzatori hanno dato in esposizione un video appartenente all’ANCR (Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza): avendolo visionato per intero in precedenza, nel mio articolo ho fatto notare che era stata tagliata una certa scena. Erano fotogrammi piuttosto imbarazzanti per l’impostazione ideologica data alla mostra stessa: vi si vedeva il Duca degli Abruzzi che settimanalmente, come da contratto, pagava lo stipendio ai lavoratori somali, chiamandoli uno a uno per nome e dando loro i soldi. La Pennacini è arrivata a dire che quel pezzo tagliato conteneva in realtà le immagini del Duca che dispensava “premi” agli indigeni. E da quando in qua un dominatore coloniale europeo concede premi in denaro ai suoi schiavi africani?

– Una pezza peggiore del buco!

– E non era ancora finita. Dopo questo attacco inverecondo, ho contattato La Stampa per chiedere di replicare. Ma mi hanno risposto che “non era una partita di tennis”… In compenso, il giorno dopo hanno pubblicato un’intera pagina a firma di Gianni Oliva, che parlava bene della mostra e male dei miei scritti.

– Alla fine la mostra non sembra aver ottenuto grande successo.

– L’affluenza è stata bassa. Ho potuto constatare di persona che c’era poca gente. Mi sono recato alcune volte e ho visto le sale vuote. Forse era soltanto la mia percezione, ma il libro delle firme era tremendamente bianco. L’ho sfogliato e ho visto una media di meno di dieci firme al giorno. Meno di dieci: così poche che ho potuto contarle manualmente, sul posto! A fine 2023 i Musei Reali hanno comunicato i numeri ufficiali, cifre che non coincidono poi coi numeri del comunicato stampa degli organizzatori a fine mostra. Comunque c’è da dire che le cifre possono facilmente aggiustate a scopi pubblicitari.

– Lei ha già scritto tre libri sulle bugie sul colonialismo italiano in Africa e pubblicherà addirittura il quarto. Quante bugie sono rimaste ancora da svelare?

– Le bugie hanno vita corta. Gli autori nuovi non fanno alcuna ricerca originale, ma replicano le menzogne già dette da chi è venuto prima di loro. È una ridondanza goebbelsiana delle bugie scritte molto tempo fa da Del Boca e pochi altri, che hanno letteralmente inquinato di falsità il pensiero comune. Non è affatto semplice risalire alla verità per poi riaffermarla nel dibattito pubblico. Infatti per superare la prevenzione ideologica imperante e per essere creduto bisogna dimostrare la verità portando decine di documenti originali. Al contrario, coloro che mi impegno a sbugiardare si comportano da megafoni delle bugie inventate dai loro predecessori. Costituiscono gli ingranaggi di un meccanismo di dominio socio-culturale e accademico nel quale si può entrare se si parla esclusivamente male del Ventennio e se si firma una dichiarazione di antifascismo. Quindi devono ufficialmente affermare di essere contrari a un regime che è sparito ottant’anni fa.

Consideriamo poi che la stessa parola “fascismo” è in sé anacronistica, ma costoro la usano per etichettare negativamente – quindi isolare e condannare – tutto ciò che va contro i loro interessi di parte. Hanno in mano le case editrici principali e chiudono qualunque spazio a chi voglia esprimere concetti diversi. Poi, quando esce un libro allineato al sistema di potere, gli vengono riservate recensioni e interviste sui maggiori quotidiani, sulle riviste, sui siti più cliccati, sui canali nazionali, mentre dei libri delle piccole case editrici scrivono – se va bene – uno o due giornali locali.

– Hanno quindi la forza dei numeri e dei posti chiave.

– Nei miei libri presento i documenti e le relative prove che dimostrano che quanto hanno precedentemente pubblicato è una bugia. Eppure le acque rimangono torbide. Il motivo è che le sporcano con falsità ripetute periodicamente. D’altronde, inventare una bugia richiede poco tempo e un solo po’ di fantasia, mentre portare la verità al pubblico in modo chiaro e incontrovertibile costa lunghi anni di ricerca e grossi sforzi di approfondimento. Ogni anno escono decine di libri con argomenti e titoli simili, che replicano all’infinito quelle menzogne. Invece io combatto da solo. Ma a differenza loro, non ho nulla da perdere: non ho padrini, non ho contratti, non ho cattedre. Non sono ricattabile, a differenza di tutti gli altri.

Vede, ci sono alcuni accademici che acquistano i miei libri e vengono alle mie conferenze. Privatamente si congratulano con me per le mie opere e confessano di non poter commentare o condividere i miei post sui social. Ammettono che per questioni di posizione lavorativa non possono esporsi, magari mettendo il like alle mie pagine, ma promettono che continueranno a comprare i libri e a parlare bene di me… in privato. Non posso fare i nomi; posso solo dire che si tratta di professori universitari di diversi atenei italiani.

– Quindi Lei è l’unico a trattare questi temi?

– Difficile trovare una casa editrice che ti pubblichi, perché magari rischia di far uscire qualcosa che contrasta con altri testi da essa pubblicati in passato. Migliaia di associazioni, centri studi e giornali filtrano i contenuti. Se si parla male del colonialismo, va sempre bene. Se offriamo uno sguardo diverso, allora si finisce immediatamente nell’angolo. Sono però fermamente convinto che fra qualche decina d’anni le bugie non interesseranno più, bensì i fatti storici. Dei loro libri resterà forse una copia in qualche biblioteca, ma nessuno li terrà più in considerazione. Nel 2011 Del Boca confessò al Corriere della Sera di aver scritto la storia in maniera partigiana perché era antifascista, anticolonialista e aveva simpatia di principio per l’imperatore d’Etiopia Hailé Selassié. Questa ammissione non fece scalpore, ma fu comunque un buon segno.

– Quali sono le menzogne più eclatanti o quelle più dure da smentire? E quali sono le omissioni più clamorose?

– Sono le bugie ripetute e copiate all’infinito, quelle prese dai pochi autori “autorizzati”. L’argomento principale è questo: in Africa gli italiani ha effettuato spoliazioni sistematiche e si sono comportati da sfruttatori. Ma che cosa avremmo sfruttato esattamente? Nella corsa alle colonie l’Italia è arrivata per ultima! Erano rimasti da “conquistare” solamente i posti più poveri e meno promettenti. L’unico con qualche risorsa naturale di cui approfittare era la Libia, ma non riuscimmo a prenderne il petrolio perché era troppo profondo da raggiungere. Quali spoliazioni avremmo potuto compiere in un deserto?

E invece in Libia gli italiani hanno condotto scavi archeologici, per esempio a Leptis Magna o a Sabrata, creando i musei in loco. Non abbiamo portato in Italia nemmeno una pietra antica: tutto quello che abbiamo tirato fuori dalla sabbia è stato lasciato là, perché nelle intenzioni di Roma le colonie dovevano creare reddito e sostenersi da sole. Scavi archeologici ne facemmo anche in Eritrea e Somalia. Per inciso, negli anni ‘30 in Somalia trovammo il petrolio… ecco perché ancora oggi in quel Paese continuano ad ammazzarsi.

Prendiamo poi l’altra classica storiella degli italiani stupratori. Hanno montato un’intera impalcatura sulle idiozie dette da Montanelli tanti anni fa. E se anche quest’ultimo avesse detto la verità (cosa di cui dubito, perché credo che volesse soltanto raccontare qualche sbruffonata), è totalmente scorretto individuare un singolo caso negativo e applicarlo a tutti o quasi i 490mila militari italiani inviati in Etiopia tra il 1935 e il 1936.

Un altro cavallo di battaglia della propaganda anti-italiana è il massacro di Debra Libanos del 1937. Un attentato che voleva colpire Rodolfo Graziani fece anche delle vittime civili, ma il governatore ne uscì illeso (sebbene poi gli tolsero trecento schegge dal corpo). Si noti che l’attentato venne eseguito durante una cerimonia pubblica nella quale il governatore della Somalia distribuiva denaro ai poveri: ecco gli italiani sfruttatori! Le Camicie Nere si misero immediatamente alla ricerca dei colpevoli e scoprirono che si erano nascosti nel monastero copto di Debra Libanos. Al rifiuto ripetutamente opposto dai monaci a consegnare gli attentatori, gli italiani li giustiziarono.

Delitto efferato? Probabilmente sì, se visto con lo sguardo della società attuale, ma si trattò di una rappresaglia regolarmente prevista. E attenzione al trucchetto della propaganda: a ogni ricorrenza annuale il numeri dei monaci uccisi aumenta sempre di più… peccato che nessuno dica i numeri giusti. Quelle effettivi ci sono, ma bisogna fare lo sforzo di andare a leggere i telegrammi che gli ufficiali inviarono a Graziani per comunicare l’esito delle ricerche.

Oggi nessuno si prende la briga di pubblicare i documenti originali, per pigrizia, per comodità o proprio per ignoranza. I primi fabbricanti di bugie, quelli di trenta o quarant’anni fa, erano persone preparate sull’argomento, che mentivano sapendo di mentire. Quelli odierni conoscono pochissimo il tema, non hanno fatto ricerche in archivio e si limitano a copiare i libri già scritti da altri. Non sanno ciò di cui parlano, ma sanno benissimo ciò di cui non devono parlare. Ad esempio non devono divulgare il fatto che nelle colonie africane gli italiani portarono le leggi europee dove prima c’erano schiavismo e pena di morte, che vaccinarono l’intera popolazione umana e animale, che aprirono scuole per tutti quanti, fossero cristiani, musulmani o ebrei.

Non devono nemmeno dire che nelle colonie africane l’Italia fece piantare 4 milioni e mezzo di piante per bloccare la desertificazione della Libia e che fece lo stesso in Somalia piantumando le dune e scavando pozzi. Per non dire dell’uso delle pale eoliche per generare energia elettrica a Chisimaio in Somalia. Immaginate: energia rinnovabile italiana cento anni fa in Somalia…

Infine c’è l’etichetta di “colonialismo straccione” affibbiata dai propagandisti all’esperienza coloniale italiana durata ottant’anni. La realtà dei fatti dice che c’erano delle leggi molto precise che regolavano l’emigrazione degli italiani nelle colonie africane. Non si andava all’avventura, ma lo Stato permetteva il viaggio soltanto a chi aveva la volontà di lavorare e i mezzi per fare investimenti.

FONTE: https://strumentipolitici.it/mistificazione-della-verita-storica-e-propaganda-il-caso-della-mostra-piena-di-errori-sul-colonialismo-italiano-intervista-con-alberto-alpozzi/

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